Créé le: 03.04.2016
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Il prescelto

Italien, Nouvelle

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© 2016-2024 Pippo Bensaia

In formazione serrata proseguiamo la nostra rotta verso il mare della Speranza. Ai lati del gruppo i miei compagni si sbizzarriscono in avvitamenti, in salti all’indietro, in salti frontali. La loro gioia, le loro risate, sono dedicate a me: il prescelto. Molte volte anch’io ho fatto parte dei cortei organizzati in onore dei prescelti: accompagnandoli non ho mai capito perché rimanessero muti e assorti, pensavo dovessero essere fieri, felici di tanto onore.
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In formazione serrata proseguiamo la nostra rotta verso il mare della Speranza. Ai lati del gruppo i miei compagni si sbizzarriscono in avvitamenti, in salti all’indietro, in salti frontali. La loro gioia, le loro risate, sono dedicate a me: il prescelto.

Molte volte anch’io ho fatto parte dei cortei organizzati in onore dei prescelti: accompagnandoli non ho mai capito perché rimanessero muti e assorti, pensavo dovessero essere fieri, felici di tanto onore.

Adesso il prescelto sono io e comprendo i loro musi spenti, lo sconforto trasmesso dai loro occhi, la nostalgia con cui guardavano ognuno di noi. Strofinavano i loro rostri nei nostri sessi – è uno dei nostri modi di manifestare affetto – trasmettendo una malinconia, per noi innaturale, che mai ho potuto dimenticare. Così come nessuno dei miei accompagnatori dimenticherà quella trasmessa dalle mie carezze.

Si avvicinano a me uno per volta e mettono in mostra i loro sessi aspettandosi la tenerezza, l’allegria di sempre. Non riesco a esprimere la parte essenziale del mio essere, dell’essere di ogni delfino: la gioia.

Eppure non sono triste, non saprei esserlo. Sono contento di essere stato scelto, però mi dispiace lasciarli e soprattutto mi terrorizza sapere che se fallissi la missione potrei diventare il loro assassino.

Sapere che un giorno non troppo lontano potrei essere il loro carnefice e non avere memoria di nessuno di loro, di essere loro, mi è insopportabile.

Mi viene da ridere a pensare d’essere stato scelto per la mia allegria, per la mia spensieratezza, per la mia capacità di trasmettere letizia.

Se raccontassi questa storia agli uomini, resterebbero allibiti, non sono queste le doti dei protagonisti delle loro vicende epiche. Questo è il loro guaio, e anche il guaio di noi delfini.

I miei fratelli devono aver scorto sul mio muso l’ombra del sorriso e schizzano fuori dall’acqua per salti tripli, i loro stridii riempiono il mare, mi sento accarezzare dai loro sorrisi ancor prima che dalle loro pinne, ed è proprio questo solletico dall’anima a farmi capire quanto sia importante mantenere intatta la mia voglia di ridere, di far ridere, di essere felice e di essere felice che gli altri lo siano. Questa è la mia arma, con essa posso salvarmi e salvarli.

Un entusiasmo incredibile mi scuote, la voglia di correre ridendo verso la superficie per mostrare a tutti la mia gaiezza esplode. Mi ritrovo in aria a sentire la frescura del mattino prima di ricadere in acqua e far ridere quell’angolo di mare della mia stessa risata.

Tra una carezza e l’altra, pur tramortito dall’affetto e dalla speranza degli altri, ripenso al nostro destino.

Tanto e tanto tempo fa noi delfini vivevamo sulla terra ferma ed eravamo molto diversi da oggi, avevamo persino mani e piedi, ma la stessa allegria.

Vivevamo ai bordi del Mare; troppo soffocante e troppo violento era l’interno, dove gli altri animali si contendevano il dominio barattando a ogni nuova generazione un’arma con un’emozione. Noi, sempre pacifici, non abbiamo mai barattato con nessuna arma il dono maggiore ricevuto dalla natura: la felicità di essere. Questo però ci rendeva vulnerabili in un mondo incapace di accettarsi, in cui ognuno tentava di padroneggiare per sopravvivere. Le lotte erano talmente complesse da coinvolgere oltre agli animali – certamente i più deboli – il clima, i Cieli, la Terra stessa.

Rivolgendoci al Mare, rimasto nella sua possanza quello che era sempre stato, origine di tutte le vite, essere giusto e spietato, essenza di libertà e al di sopra di ogni lotta, noi delfini trovammo più di quanto avessimo sperato. Ci accolse con amore. La nostra allegria Lo entusiasmava e seppe che un Dio non è un Dio se non è anche sorriso. Però noi non eravamo nati per vivere in acqua e chiedemmo al Mare se avesse potuto donarci delle forme nuove. Ma il Mare non dona se non si è meritato il dono.

Un’onda altissima, tanto alta da inzuppare un lembo di sole, partì dal largo, si diresse verso la spiaggia, si fermò davanti alla nostra comunità che tentava le prime nuotate, le prime immersioni, e attraverso il biancore della schiuma sulla sua cresta, il Mare parlò.

– Andate e fate ridere ogni stilla delle mie acque, se lo meriterete modificherò il vostro corpo affinché possiate vivere per sempre in me.

Sarebbe stato un compito semplice se il corpo terrestre non ci avesse impedito la naturalezza necessaria, ogni gioco, ogni tenerezza, erano compiute con enorme sacrificio in un elemento inadatto come era l’acqua allora per noi. Non solo, dovevamo anche risalire continuamente in superficie per respirare, interrompendo i giochi, gli scherzi. Malgrado ciò non ci arrendemmo. Passò del tempo. Continuavamo a rallegrare il Mare tutto il giorno ma la sera non sempre eravamo soddisfatti. Nell’acqua il nostro corpo non riusciva a esprimere a pieno la sua propria interiorità. Cominciavamo a pensare che mai avremmo potuto onorare il Mare come avremmo voluto. Ne stavamo appunto parlando quando piccoli mulinelli d’acqua, formatisi all’improvviso nel basso fondale dove ci eravamo appartati, solleticarono i nostri piedi irresistibilmente, facendoci esplodere in una irrefrenabile e involontaria risata. Una risata il cui boato scosse le montagne, rimescolò le acque, spezzò le nubi. Non durò molto, eppure il mondo rimase turbato. I mulinelli si fermarono e potemmo smettere di ridere. Allora ci accorgemmo che i nostri piedi si erano uniti per i talloni tramutandosi in una pinna.

Adesso ci muovevamo meglio e potevamo con maggior facilità esprimere il nostro potenziale di giocosi esseri felici.

Sospinti dall’entusiasmo per il primo dono mettemmo maggior impegno, se ciò era possibile, e ben presto arrivò un altro segno del Dio. Arrivò di notte. Quella notte le acque erano particolarmente fredde e noi, riuniti nei bassi fondali di una baia, addormentati verticalmente in modo da avere il corpo immerso e la testa oltre la superficie e poter respirare, ci abbracciavamo l’un l’altro per tenerci caldi. Le braccia di uno circondavano il corpo dell’altro. Dormivamo di un sonno profondo e tenero.

Durante la notte il Mare, sublimando la nostra tenerezza, ritirò le nostre braccia e ci trasformò le mani in pinne natatorie.

Il mattino seguente la comunità entusiasta si riunì al centro degli Oceani, aprendosi subito dopo come fosse lo sboccio di un fiore e, mediate salti e avvitamenti a pelo d’acqua, ogni petalo si diresse verso gli angoli dimenticati del Dio, dove Egli nascondeva la malinconia per quella parte di sé che era solo ghiaccio.

Il Mare rise come non aveva mai riso.

Sfiniti, noi delfini curvavamo la schiena sotto un dolore lacerante. Era la schiena la parte più terrestre che avessimo, perciò la meno disposta a collaborare, troppo abituata a chinarsi davanti alla stanchezza e al tempo. Noi, nella pace della baia, allegramente ce ne dolevamo. Vedemmo arrivare un’onda, comunque ci girassimo proveniva sempre dalle nostre spalle, ci colpì proprio nella parte dolorante, senza dare dolore. Ritirandosi, l’onda risucchiò le nostre colonne vertebrali. Non le staccò completamente, le ammonticchiò sui dorsi trasformandole in pinne dorsali.

Ora la metamorfosi era completa.

La nostra gioia fu talmente grande e i movimenti così perfetti da far fermare le nuvole, incantate dallo spettacolo. Inspirammo tutta l’aria che i nostri polmoni potevano contenere e ci inabissammo tentando di baciare il cuore del Dio, considerato adesso più di un Dio, più di un padre, fratello, amico.

Nell’euforia del momento trovammo l’innocente ardire di chiedere un ultimo dono: chiedemmo di essere dispensati dal dover risalire in superficie per respirare e di poterlo fare solo per piacere, per gioco. Dimenticavamo, non sapevamo, che un Dio è sempre, soltanto, un Dio.

Una goccia levitò dal Mare. In essa si poteva scorgere la profondità dell’abisso, la trasparenza della superficie, una gamma infinita di colori dentro un nero impenetrabile, la forza delle mareggiate, l’emozionante dolcezza del ritmo lieve e perenne dell’amplesso tra le acque. Persino i frutti di questo amore avrebbero potuto essere scorti se solo la mente avesse potuto sopportare tanto.

Dalla goccia scaturì la voce del Mare. Come il rombo di una cascata, come il tonfo di una lacrima.

– Non esistono esseri viventi privi di una necessità che ricordi loro d’essere in viaggio circolare tra realtà e sogno. Voi tra tutti trasformerete tale necessità in gioco. Siete fortunati. Per mostrarvi la mia gratitudine voglio comunque farvi un ultimo dono. In questo mondo, esseri indifesi come voi sarebbero ben presto decimati da predatori, incapaci di fermare un loro attacco per concedersi una risata; il mio dono consiste quindi in un’arma che, facendo leva sulla vostra amicizia, sulla vostra fedeltà, sulla vostra scelta di non avere capi, sull’amore che nutrite l’uno per l’altro, possa salvarvi: quest’arma è l’unione, finché resterete uniti nessuno potrà nuocervi.

Planando sull’acqua con la lentezza di una piuma la goccia sollevò un’onda che circumnavigò il globo e si ricongiunse a se stessa. Quel giorno iniziò per noi delfini un tempo felice, ormai convinti di non dover temere nessuno, scorrazzavamo negli Oceani del pianeta donando al Mare e ai suoi abitanti la nostra amicizia, la nostra allegria.

Noi poi, grazie all’ultimo regalo del Dio, non abbiamo mai avuto bisogno di tradire la nostra natura nemmeno per difenderci: quando squali o orche si avvicinano per attaccare, l’arma ci rende invulnerabili: serriamo le fila del gruppo perdendo le nostre individualità e diventiamo un insieme inscindibile e inattaccabile; i predatori, privi di punti di riferimento su cui sferrare l’attacco desistono sconsolati. Ci difendiamo senza bisogno di contrattaccare, senza ferire, soltanto rendendo impossibile l’essere offesi.

Il mondo sembrava aver ritrovato il suo equilibrio. Non durò molto. Un giorno il Mare fu solcato da uno strano albero su cui stava appollaiato quello che poi scoprimmo essere il vincitore della guerra terrestre per la sopraffazione: l’uomo.

Noi, ingenui e felici, cominciammo a giocare con i loro strani alberi chiamati barche, ci mostravamo cercando un contatto, regalando anche a loro il nostro entusiasmo per la vita. Eravamo attratti da loro. Vecchie leggende narrano di un antico legame tra noi delfini e quegli esseri buffi.

Nonostante le loro violenze abbiamo cercato sempre di mostrarci amici, come con gli squali, come con le orche. Ma contro i loro attacchi non possiamo nulla, forse nemmeno il Dio aveva previsto l’inefficacia della nostra arma contro la loro determinazione alla morte.

A onor del vero l’uomo ci uccide per caso, quasi senza volerlo e questo è forse ancor peggio che se lo facesse di proposito. La nostra condanna nasce dall’essere seguiti costantemente da giganteschi banchi di tonni di cui l’uomo sembra ingordo.

Quando gli uomini ci vedono giocare a pelo d’acqua sanno non solo della nostra presenza ma anche della vicinanza dei tonni. Siamo degli indicatori. Durante la cattura dei tonni è inevitabile che molti di noi vadano a finire nelle loro reti.

Qualche volta gli uomini aprono un lembo della rete per permetterci di uscire – potremmo servire per individuare un altro branco di tonni – ma questo dimostra quanto poco ci conoscano.

Ho visto amici finire nelle reti, li ho visti perdere ogni cognizione di tempo e di luogo, li ho visti abbandonarsi disperatamente a una morte incomprensibile e anche quando sarebbero potuti uscire non ne hanno approfittato.

Io li capisco, non ne hanno approfittato per scoramento. Hanno pensato di non poter vivere un solo attimo che comprendesse loro e quella violenza. Forse è meglio così. Le loro risate e i loro giochi non sarebbero stati gli stessi, loro non sarebbero stati soltanto delfini, in un angolo nascosto del loro cuore avrebbero incominciato a essere anche umani.

Queste continue violenze hanno decimato la nostra comunità, i tonni sono più prolifici e soffrono meno le razzie, noi invece rischiamo di avviarci verso l’estinzione.

S’insinuò nella nostra vita una così grande angoscia da mettere in pericolo la nostra letizia prima ancora della nostra sopravvivenza.

Decidemmo di studiare l’uomo per trovare una soluzione. Ogni delfino non perse occasione per analizzarne il comportamento, giocando con le prue delle loro barche si potevano vedere ritti sul ponte a guardare meravigliati.

La notte, avvicinandoci alle loro spiagge e alle scogliere, si potevano udire le loro parole non sempre comprensibili; restando sotto le chiglie delle loro piccole barche da pesca si poteva scoprire un Uomo poco somigliante a un trionfatore di violenza. Nel contempo cercavamo di mostrare agli uomini la nostra natura, e ci furono addirittura delfini che ne divennero amici, altri ne salvarono molti da morte certa, altri ancora li rallegrarono con i loro giochi.

I nostri saggi elaborarono i dati che man mano arrivavano e quando si sentirono pronti organizzarono una riunione planetaria di noi delfini. La riunione avvenne al centro degli Oceani. Era una notte in cui il Mare si confondeva con il cielo, guardando in alto vedevamo un mare punteggiato di schiuma, chi avesse guardato dall’alto verso il basso avrebbe visto un cielo punteggiato di stelle.

Il dibattito fu molto acceso, l’uomo è sempre stato un argomento estremamente variegato, si può dire tutto e il contrario di tutto, infatti ci fu chi lo descrisse come un violento senza speranza e chi invece un inconsapevole ignorante, chi un debole bisognoso di mostrarsi forte, chi un forte incapace di esserlo, chi un assetato d’amore, chi un incapace d’amare, così via all’infinito.

Solo su un punto tutti concordavano: sull’infelicità dell’uomo.

Pur essendo l’animale con maggior potenzialità è quello meno adatto alla vita e il suo limite è l’esatto contrario della grandezza dei delfini: l’infelicità d’essere.

L’uomo non è lieto di esistere e si chiede continuamente perché sia toccato anche a lui. Quest’angoscia gli impedisce di gioire, di essere disponibile, di provare vero attaccamento verso i suoi simili, verso il suo mondo, verso la vita. Gli impedisce persino di essere gruppo e cerca continuamente un capo che gli imponga di esserlo.

La maggior sorpresa della riunione venne dagli studiosi delle leggende narranti legami tra l’uomo e il delfino agli albori del mondo; loro davano per certa l’esistenza di questo legame e raccontarono del nostro mutamento, delle nostre pinne un tempo mani, delle nostre code un tempo piedi, e soprattutto parlarono dei piccoli uomini.

I cuccioli degli uomini – dissero ¬¬– hanno la gioia, la grazia, di noi delfini.

Non è facile accettare di essere parte del nemico che devi combattere, eppure per noi fu una notizia felice, adesso sapevamo di poter in qualche modo aiutarli e aiutarci. Non riuscivamo però a decidere come agire e la riunione si protrasse oltre ogni previsione, finché il Mare, stanco della tristezza delle sue acque private della nostra gioia, non venne in nostro aiuto. Anche lui, che pure era un Dio, era stato maltrattato dagli uomini, c’erano acque che avevano perso la loro purezza, i loro pesci, la loro energia, e per questo si sentiva mortificato, forse perciò non parlò, ma ci indicò la strada.

Gli Oceani si separarono mostrando l’abisso oltre l’abisso. Adagiata sul fondo, lontano da noi delfini quanto la tristezza, scorgemmo una goccia, la GocciaMadre. La sua trasparenza feriva le nostre anime, il suo ritmico pulsare somigliava al petto di un giovane delfino dopo la prima carezza, respirando si allargava e si restringeva facendo di questo movimento un richiamo irresistibilmente

dolce, ogni delfino poté specchiarsi in se stesso, in quel che era stato, in quel che sarebbe diventato. La verità era ormai nostra, sapevamo cosa fare. Gli Oceani si chiusero ed esplose tutta la nostra gioia.

Ci rendeva felici sapere che per salvarci avremmo dovuto solo essere noi stessi, e se fossimo riusciti nell’impresa avremmo salvato l’uomo e soprattutto il Mare, la Terra, il Cielo. Vi sarebbero stati anche dei rischi, ma non avevamo scelta. Entrando nella GocciaPrima un delfino avrebbe attraversato uno spazio neutro e si sarebbe trovato nella GocciaMadre dell’umanità, rinascendo uomo. Infiltrato, gli avrebbe mostrato la felicità d’essere, il piacere degli spazi immensi, la gioia, la forza della gentilezza e del rispetto per tutto ciò che è vita, l’allegria vera, la tenerezza, i sogni privi d’offese. Così è stato da allora.

A ogni stagione un delfino è scelto per quest’impresa. Dei tanti finora partiti molti hanno lasciato segni indelebili nell’uomo, qualcuno però si è perso diventando troppo umano.

In questa calda primavera io sono il prescelto.

Il chiassoso corteo di cui sono il protagonista arriva al centro degli oceani. Il Mare è calmo e limpido, invaso da pinne dorsali nere e lucenti mi appare come una madre in procinto di dare l’addio al figlio che mai più vedrà, ne sento il dolore ma anche la liberazione, la speranza per ciò che potrà fare e la fatale rassegnazione al suo fallimento. Probabilmente è il mio stato d’animo, diviso tra la voglia di andare e far bene per tutti e la paura di non essere abbastanza pronto, a farmi percepire

sensazioni opposte. La comunità adesso è attorno a me per l’ultimo saluto: salti, corse, risa, carezze si susseguono festosi mentre io tento di immagazzinare nella memoria ogni pinna, ogni sensazione di tenero piacere che mi dà un rostro sul sesso, lo strofinio del petto con un dorso, il contatto tra la coda e un’altra. Vorrei ricordarli anche da uomo, per quanto sia impossibile ci spero.

Averne memoria sarebbe come indossare una invulnerabile corazza contro ogni cattiva influenza umana. Continuano i saluti, le tenere effusioni, le promesse, e prima che la nostalgia e la paura di deluderli possano condizionare la mia partenza mi abbandono a una corsa sfrenata, attraverso tutto il gruppo ridendo e saltando per ritrovarmi alfine a mezz’aria al centro di esso in un avvitamento in verticale pieno di energia gioiosa; non potendo lasciare di me un ricordo migliore mi inabisso.

Per un breve tratto sento dietro di me la comunità seguirmi, l’acqua risuona silenziosa dei loro echi, perlustrano il Mare pronti a proteggermi, per me i loro ultrasuoni sono un canto d’amore, un’ultima carezza, un ultimo bacio d’addio.

Scendo sempre più giù senza un vero percorso da seguire, nessuno mi ha dato indicazioni, nessuno avrebbe potuto darmene. Sono oltre il limite sopportabile dal mio corpo e ho paura di morire schiacciato dal peso del Dio al quale giunge la mia preoccupazione; gli oceani si separano impercettibilmente lasciando tra di essi una crepa di vuoto verso cui m’indirizzo. Appena entrato nel crepaccio d’acqua vedo, in fondo, la leggendaria GocciaMadre. Non è diversa dalle altre gocce, anche se il suo respiro sembra più profondo.

Inspira e si restringe, espira e si allarga. Avrei voglia di salutarla con un sorriso, ma il cuore in gola mi impedisce qualsiasi movimento che non sia il nuoto. Le sono quasi addosso, aspetto che espiri e approfittando della sua maggior grandezza mi immergo in essa con l’audacia di chi non ha altra scelta.

E’ come se entrassi in uno specchio liquido, la mia immagine ritorna da ogni punto ed è talmente nitida da farmi sentire in mezzo a un gruppo in formazione serrata. Percorro un tunnel circolare parecchie volte prima di capire che l’inizio e la fine della GocciaMadre sono la stessa cosa. Vista l’inutilità dei miei sforzi a trovare una via d’uscita tento di fermarmi, ma vengo preso da una forte corrente che mi fa girare a velocità crescente attorno a un centro immaginario.

Con l’aumentare della velocità il mio corpo perde consistenza, si disorganizza. Mi smembro in particelle e mi confondo nella GocciaMadre.

Ora mi bagna un altro Mare. Il Mare della Speranza. E’ caldo, denso, placido, accogliente. Il suo cielo è una cupola rosa. L’alba di un giorno lucente. Un battito scuote incessantemente queste acque, come se fossero confluite sopra il cuore dell’Universo. Influenzato dal suo ritmo il mio corpo si organizza su un altro modello: avrò gambe, braccia, piedi, mani. Sto diventando Uomo.

Non ho il tempo di dolermi di questo, le acque in cui sono immerso mi accarezzano con una dolcezza primordiale, il battito è una musica perfetta su cui sembra accordarsi il mio giovane cuore, il cielo a volte si oscura e stranamente non è un segno di tempesta, al contrario pare il segno di un

profondo amore, come se un grande essere poggiasse le mani su di esso per mostrare l’immensa capacità di protezione. Sono completamente solo e non sento la solitudine, anzi mi sento in comunione con la natura, col mondo, con il cosmo intero.

Credo ci siano veramente dei grandi esseri che mi accudiscono. Ci sono dei momenti in cui mi sembra di sentire le loro voci provenire da un punto lontano oltre il cielo. Man mano che il corpo prende forma e cresce, il cielo si alza, come a darmi un respiro maggiore, forse si assottiglia anche, poiché le voci diventano sempre più chiare.

All’inizio era solo una nenia incomprensibile, adesso invece capisco che sono parole d’amore per me.

Questi grandi esseri sognano per me. Mi sento avvolto nel loro alito, sono il loro alito. Dalle parole capisco che presto sarò alla loro presenza e me ne spavento. Mi spaventa la loro forza, il loro stesso amore, il capire che già sognano un me a me sconosciuto.

Ormai lo so, sono Uomini. Prima ancora di vedermi raccontano la vita che vivrò. Questa loro risolutezza è inquietante. Capisco perché gli Uomini non sanno vivere la libertà. Nemmeno prima di nascere sono liberi.

IO non sono Uomo. Io ho un compito. La grande pace di questo luogo, incredibilmente, me lo aveva fatto dimenticare. Io sono un delfino. Nasco per mostrare agli uomini la felicità di essere, la gioia, l’allegria, la libertà, la gentilezza, la dolcezza, il rispetto per la vita.

Nasco per essere libero nella prigione del mondo, per essere forte con gentilezza, per essere serio con allegria, per essere fermo con dolcezza, per essere gioioso con saggezza, per essere disponibile con generosità.

Nasco per essere me stesso. Nasco da delfino. Nasco per essere esempio.

Lieve e lieto mi appare adesso il compito. Sono pronto. Posso nascere. Forse le emozioni, i pensieri, volano oltre il cielo, perché le voci, come se avessero sentito, mi danno il via divenendo un ululato doloroso, un richiamo irresistibile. Questo Mare sviluppa onde sempre più alte, le creste sono polverizzate dalla violenza delle voci, frammenti di gocce salgono verso il cielo rosa finché la loro violenza non riesce a provocare uno squarcio in cui s’incunea una lama di luce: Il primo raggio di sole di un giorno lucente.

Sto nascendo Uomo. La mia memoria ha ancora tutto il tesoro della vita da delfino e scalando il raggio di sole ripenso ai miei fratelli fiduciosi nelle capacità della mia gioia di essere, ripenso al Mare, Dio umiliato pronto a non lasciare traccia della vita che ha ispirato; penso a loro e li sento dentro di me; la loro letizia, la loro potenza, la loro magnanimità sono mie.

Affrontando l’atto estremo della nascita, grido a un mondo che non mi può ancora capire…

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