Créé le: 03.04.2016
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Finchè libro non ci separi

Italien, Nouvelle

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© 2016-2024 Pippo Bensaia

La panchina su cui mi sedetti per il terzo giorno consecutivo, era stata verniciata da poche settimane e sulla spalliera vi si poteva leggere un’unica informazione: “Lillo ama Lilla”. Due giorni prima, immergendomi nell’ombra degli alberi secolari dei giardini pubblici, andavo a caccia di titoli.
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La panchina su cui mi sedetti per il terzo giorno consecutivo, era stata verniciata da poche settimane e sulla spalliera vi si poteva leggere un’unica informazione: “Lillo ama Lilla”.

Due giorni prima, immergendomi nell’ombra degli alberi secolari dei giardini pubblici, andavo a caccia di titoli.

E’ il mio sport preferito scoprire i titoli dei libri che la gente legge ai giardini, sugli autobus, nelle sale d’aspetto. Non è una mania fine a se stessa. Scoperto il titolo compro il libro, lo leggo e mi sforzo di ricordare che aspetto avesse il lettore tentando in questo modo di fare la sua conoscenza, di provare a capire attraverso una storia che ha letto, la sua storia. Per questo è necessario che io lo carpisca, per lasciare intatta la sua figura di lettore evitando anche quel minimo approccio indispensabile per chiedere il titolo del libro. Lo chiedo solo in casi estremi. Conseguenza di questa mia piccola mania è una mania maggiore: possedere libri. Non so quale delle due sia frutto dell’altra. Alleate, hanno ottenuto la conquista d’ogni altra passione.

Dopo aver superato il laghetto artificiale delle anatre avvistai un libro. Vi erano avvinghiate le mani di una ragazza che navigava tra le righe.

Andai a sedermi sulla stessa panchina. Le pagine erano spesse e ingiallite, la copertina aveva il colore della sabbia in una giornata plumbea. Allungavo il collo ma non riuscivo a leggerne neanche una riga, tanto meno a scoprirne il titolo. Quel libro era già stato letto: potevo scorgerne dei brani sottolineati a matita e altri con accanto una riga rossa, di penna.

Avevo scartato la possibilità che fosse un saggio, il colore della copertina non dava l’idea della solidità, dell’incancellabilità; ero portato a credere fosse un libro di narrativa, un romanzo. L’invadenza del mio sguardo fece sussultare il libro e malgrado percepissi un’occhiata selvaggia protestare, non mi scomposi. Continuando a sbirciare riuscii a decifrare il numero in alto a destra: era il ventisei. Proprio in quel momento la lettrice chiuse violentemente il libro. Alzando lo sguardo mi ritrovai davanti al rosa tenue delle sue labbra e all’azzurro delle sue pupille attraversate da una linea di un azzurro più profondo: un orizzonte.

La lettrice si allontanò col passo disarmonico di chi è arrabbiato. Il libro abbrancato dalla mano oscillava seguendone il ritmo.

Il pomeriggio successivo ritrovai il libro sulla stessa panchina per un appuntamento non dato. La lettrice navigava tra i flutti.

Il volume che mi ero portato avrebbe dissimulato le mie intenzioni. L’attrazione verso l’altro libro mi costringeva a nuotare nello stesso brano: “Sono un uomo malato… Sono un uomo malvagio… Sono un uomo odioso”. In alcuni momenti sentivo il frangersi delle onde su di lei, percepivo il rollio o il beccheggio del suo corpo, cercavo di intuire se stesse solcando acque felici oppure oscuri tratti di mare. A volte sentivo il suo sguardo posarsi sul mio libro, su di me.

Poi le pagine si chiusero, anche stavolta nascondendomi il titolo. Cercai l’orizzonte nei suoi occhi ma si stava già allontanando. Puntai allora lo sguardo per scoprire un elemento che avrebbe potuto aiutarmi. Probabilmente si trattava di una vecchia edizione. Oscillava allo stesso ritmo dei fianchi della lettrice.

Il terzo pomeriggio avevo preteso troppo sperando in un altro appuntamento non dato. Attesi inutilmente.

Per compensare la delusione mi diressi verso il tendone bianco al centro dei giardini pubblici sotto il quale si vendevano libri a metà prezzo. Un acquisto avrebbe lenito la ferita. Il grande locale era deserto. Su tre lunghi banconi giacevano centinaia di libri: su quelli laterali spadroneggiavano insieme ai classici, testi di storia, filosofia, religione e scompagnati fascicoli di vecchie enciclopedie. Al centro, disordinatamente ammucchiata, stava la narrativa. I nomi degli autori mi davano la sensazione di essere entrato nel polveroso museo eretto alla fatica degli scrittori dimenticati o mai riconosciuti. Quei libri perduti racchiudevano nel titolo l’unico pretesto all’acquisto.

Quando ne acquistavo qualcuno poteva accadere che leggendoli scoprissi in ogni pagina la durata di un appagamento e pensassi ad un monumento vero – simile a quello eretto alla memoria dei soldati americani morti in Vietnam: un muro con i nomi dei caduti – un muro di carta con i nomi di tutti quegli autori che nessuno ha mai letto, di tutti quelli che hanno pubblicato a loro spese, di tutti quelli che non hanno mai avuto una recensione, di tutti quelli che muoiono dopo aver aspettato invano una risposta dall’editore, insomma di tutti quelli che, pur dedicando la loro vita alla scrittura non sono creduti.

Il bancone della cassa, che pure era davanti all’entrata, lo vidi in un secondo tempo e solo perché due voci alterate richiamarono la mia attenzione.

– Vista la sua scortesia il libro non lo lascio, sono affari suoi se non ha il resto da darmi!

Se ci avessi pensato avrei immaginato una voce meno matura sul rosa tenue della lettrice. Ritta davanti alla cassiera con indosso un gonnellino azzurro e una maglietta bianca sembrava un frammento di cielo di fronte a una montagna. La montagna, sfatta e dai mille colori, la fronteggiava con uguale piglio anche se più disposta a smorzare i toni.

– Eh già, lei per tre miseri euro mi dà un centone!

La cassiera aveva la voce sincopata dallo sforzo di trattenere la rabbia.

– Non è un buon motivo per comportarsi male.

– Senta, io devo chiudere, il libro lo prenderà domani.

– E’ l’unica copia! E se domani non lo trovassi?

Lo disse sventolando provocatoriamente un piccolo volume.

Il viola, l’arancione, il blu, che coloravano le palpebre della cassiera si restrinsero in seguito allo spalancarsi degli occhi ora proporzionati al volto.

– Non insista! Metta giù il libro e basta!

– Io non metto giù un accidenti!

Misi i soldi sul bancone con la paura che parte della loro rabbia mi sarebbe stata indirizzata. Entrambe si guardarono senza capire.

– Cambiamo le tue cento fuori, così me li potrai restituire – dissi timoroso.

– Grazie, non si disturbi.

– Non è un disturbo, la prego.

La cassiera ebbe il buon senso di non intervenire. La lettrice, ostentando un falso sorriso, spinse leggermente i soldi verso la donna.

Uscimmo insieme, l’uno accanto all’altra. Ero intimorito dal pensiero che potesse riconoscermi come il seccatore dei giorni precedenti. Lei camminava riservata e imperturbabile da non darmi alcuna certezza. La speranza che avesse con sé il libro misterioso era sfumata subito. In mano teneva soltanto quello appena comprato. Forse si trovava nella borsa che portava a tracolla. Per i primi passi avevo pensato che il libro che aveva comprato fosse un altro titolo da carpire. Ma a differenza dell’altro questo lo teneva in evidenza, con la copertina in bella vista all’altezza del petto e solo le mie riflessioni mi potevano aver reso così

cieco. Appena lo notai capii che quel titolo non mi avrebbe fornito né un’altra storia né un altro libro, e che lei mi aveva riconosciuto. Per quanto non fosse la mia procedura preferita l’unica scelta possibile era dirle la verità e chiederle direttamente che libro stesse leggendo sulla panchina di “Lillo e Lilla”.

Cosa le dico? – pensavo – Potrei chiederle… no… probabilmente penserà che abbia voluto abbordarla… le potrei dire: “mi dispiace di averle disturbato la lettura nei giorni scorsi, l’ho fatto soltanto per scoprire il titolo del suo libro…”

Camminavo accanto a lei come se fossi stato da solo, preso dalle riflessioni, perciò trasalii sentendo la sua voce.

– Leggevi questo racconto ieri? – mi chiese mostrandomi il libro appena comprato.

– Sì, “Memorie del sottosuolo” – dissi titubante. Stavo per scusarmi ma lei non me ne diede il tempo.

– Ami Dostoevskij?

– Preferisco amare i libri piuttosto che gli scrittori.

Si girò per guardarmi e sorrise.

– Non è la stessa cosa?

– No, un libro che ami non può deluderti, uno scrittore invece è spesso una delusione.

– Anche un grande scrittore?

– Per me non esistono grandi scrittori, solo grandi libri.

Rispondevo d’istinto, con onestà, perché mi sentivo trascinato dalla sua energia, dalla maniera in cui mi poneva le domande, dal passo deciso e

da quel suo modo di interrogarmi, come se fosse stata lei a voler scoprire qualcosa su di me.

– Sei un lettore accanito?

– Compro più libri di quanti riesca a leggerne.

– Avrai letto Anna Karenina.

– Sì.

– Mi chiamo come lei.

Credo che questo modo di presentarsi me la rese subito vicina. Presentarsi attraverso il personaggio di un libro in qualche modo la rese un personaggio. Ai miei occhi.

Dalla vetrata del bar si potevano vedere gli ultimi ospiti lasciare i giardini. I lampioni erano ancora spenti. Il cielo era in bilico tra chiarore e oscurità. Ormai eravamo entrambi rilassati. L’uno di fronte all’altra avevamo simpaticamente familiarizzato, quindi mi decisi a spiegarle tutto. Quasi tutto.

In un primo tempo sembrò divertita dalle mie spiegazioni.

– Perché non mi hai chiesto semplicemente il titolo?

– Rubarlo è per me essenziale. Mi trovo costretto a chiederlo solo quando non ho più possibilità di scoprirlo.

– Cos’è? Superstizione, gioco, mania o altro?

– Anche tu hai sbirciato il mio, e lo hai pure comprato!

– Pura curiosità.

– Per me è avere qualcosa di qualcuno, impadronirmi di un frammento della sua vita.

– Credi che conoscendo il titolo del mio libro avresti qualcosa di me?

– Saprei una storia che sai anche tu.

– E’ un po’ poco, no?

– Eppure le storie che amiamo e le storie che viviamo in qualche modo mostrano chi siamo.

Poi si mise a discutere soppesando attentamente ogni mia parola.

– Per me mostrarsi vuol dire svelare i propri misteri. Confessare.

– Svelarsi. Confessarsi. Non appena sappiamo cosa rappresentano per chi ascolta, mentiamo.

– Scusami, ma se adesso io ti raccontassi la storia della mia vita credi che poi mi conosceresti?

Le rispondevo con lo stesso timore di un collezionista che per la prima volta mostri i suoi tesori, lottando ora contro la voglia di nascondere, ora contro quella di ostentare.

– No. Comincerei a conoscerti nel momento in cui parlandomi di un’ora qualsiasi della tua vita me la raccontassi dal “di dentro”; raccontandomi non solo i fatti, ma anche i pensieri, le emozioni, i tuoi desideri di quel momento.

– Ci si può svelare in questo modo solo per amore e non sempre, e forse non è nemmeno giusto farlo.

Entrambi ci scoprimmo emigrati da un amore povero, senza futuro. Si sa, tra emigrati si solidarizza, ci si sente uniti se non altro dalla delusione, dall’amarezza, dalla cattiveria e dalla nostalgia con cui si parla della terra da cui si proviene.

Tornando verso casa mi pentivo di aver parlato con lei. Mi chiedo come mai spesso davanti ad una donna appena conosciuta io debba frenare la verità, e quando la conoscenza diventa più intima io non riesca a frenare la menzogna.

Alla fine non volle svelarmi il titolo del libro. Ero certo non ci fosse alcuna relazione tra ciò che le avevo detto e la sua reticenza, voleva giocare, rendersi interessante attraverso il gioco, rivedermi.

Entrando in casa non accesi la luce, a tentoni attraversai il soggiorno fino allo studio. Già sulla porta l’odore agrodolce dei libri mi solleticava le narici. Dalle imposte della finestra dietro la scrivania penetravano lunghi spilli di chiarore lunare che nel buio punzecchiando alcuni oggetti ne amplificavano i contorni mostrandoli alterati. La libreria davanti a me sembrava essere la sagoma di un cancello: una barriera, un’entrata, un confine. Accarezzai le costole dei libri e facendomi conquistare dal gioco della penombra mi parve di carezzare gli elementi di un’inferriata. Non mi chiesi se rispetto ad essa io mi trovassi al di fuori o al di dentro, non c’era differenza. Dopo aver premuto l’interruttore della lampada volgendo le spalle ai libri, diedi qualche secondo agli occhi affinché familiarizzassero con la luce e quindi mi girai di colpo, come un amante che aspettando l’oggetto del desiderio chiuda gli occhi e soltanto avvertendone la vicinanza li spalanchi per farsi completamente investire dalla sua immagine.

Lo scaffale di truciolato impiallacciato in rovere, squallido nella sua austerità, era suddiviso in quattro sezioni ognuna con sette ripiani e occupava tutta la parete dirimpetto all’entrata della stanza. Ancora una cinquantina di volumi e avrei iniziato a pensare ad una libreria nuova. Un giorno tutta la stanza sarebbe stata tappezzata di libri, forse tutta la casa!

Allora possedevo solo millecentoundici volumi. Ne avevo letti quattrocentodue, di cui centoventidue letti sino a metà. Se avessi aspettato di finire di leggere quelli che avevo per comprarne degli altri, ne avrei posseduti sempre troppo pochi.

In piedi, appoggiato alla libreria, poco prima di andare a letto, avevo l’abitudine di prenderne alcuni senza una logica precisa e di sfogliarli leggendo qualche riga. Spesso l’ultimo volume sfogliato condizionava l’incontro col primo sonno.

Quella sera il sonno tardava e non dipendeva dall’ultimo libro saccheggiato, quanto dal pensiero di Anna. L’idea di lei mi eccitava, desideravo avere qualcuno a cui pensare. Immaginai una storia d’amore allegra, passionale, frizzante, serena… vidi i giorni del mio compleanno e del mio onomastico, i suoi regali… libri… tanti… Contandoli mi addormentai.

Anna era una supplente di fresca nomina nell’istituto commerciale della città. Divideva l’appartamento con due colleghe e il sabato andava a passare il fine settimana col padre, anch’egli professore d’italiano, da tempo in pensione, a un centinaio di chilometri.

Anna amava i libri. Mi piaceva vederla come un libro.

Anna: un libro. La copertina, il volto: promette attraverso il rosa e l’azzurro un contenuto romantico. Nella quarta di copertina, i gesti: le notizie sono precise ma non necessariamente vere. Il volume, il corpo: è solido pur se sottile, l’edizione rilegata di un racconto. Il titolo, lo sguardo: è deciso e tenero nello stesso tempo, accattivante, e sprona a leggerne l’inizio.

Sfogliai le prime pagine con frenesia, avidamente. In seguito fui più attento, il libro stesso invitava alla pacatezza e potei entusiasmarmi per i pochi capitoli, per la voglia di leggere che le righe, per una volta protagoniste al di là delle parole, suscitavano come componessero un quadro astratto, per i brevi brani che riuscii a decifrare. La scrittura di quel poco che avevo potuto leggere m’imprigionò mostrando una forza inaspettata, la costruzione dei periodi era talmente elementare da far pensare ad un’architettura complessa e articolata, i verbi si muovevano con discrezione tale da far venire voglia di grattare i segni per vedere cosa si nascondesse sotto di essi.

Ricordo con chiarezza i momenti dopo la nostra prima volta, il sole pomeridiano s’infilava tra le persiane chiuse, il gabbiano di legno che pendeva sul letto era inutilmente proteso verso un’impossibile planata sui nostri corpi.

Avrei imparato che in quei momenti lei preferiva il silenzio, avvinghiata a me, con l’orecchio sul mio petto seguiva i battiti del cuore con partecipazione.

Ruppi quel silenzio parlando per primo.

– Adesso potresti finalmente dirmi il titolo del libro che stavi leggendo il giorno che ti ho vista al parco.

Non rispose subito.

– No. Resterà un piccolo segreto.

La sua voce, resa caldamente roca dall’ancora percettibile fremito della carne, era lo scrigno vellutato in cui nascondeva quel mistero.

– Ma no, perché un segreto? Che senso ha?

– Non deve avere un senso, come potrebbe non averne il volerlo sapere a tutti i costi.

– Non voglio saperlo a tutti i costi. Quel libro ci ha fatto incontrare, è un elemento importante della nostra storia.

– Un elemento ancora più importante potrebbe essere anche lasciare uno spazio vuoto, puntini di sospensione che potremmo riempire in qualsiasi momento.

– Stai costruendo un castello su una pietruzza. Me lo dici e non ne parliamo più.

Il suo silenzio nascose anche lo scrigno.

– Allora? Dai, devi solo dire un titolo… dimmi almeno l’autore, solo l’autore… nemmeno la casa editrice? La casa editrice puoi dirmela, non capirei ugualmente di che libro si tratta.

Avrei anche imparato che col medesimo silenzio lei vestiva debolezze, candori, colpe, orgogli. Il silenzio era inoltre la barriera della discrezione da contrapporre alla mia insana fame di sapere di lei.

Quando la mia martellante pretesa di conoscerla più a fondo rischiava di forzare tale barriera mi trovavo davanti alle sue omissioni o addirittura alle menzogne. Mentre mentiva non riuscivo mai a capire che stava mentendo. Poi, incastrando particolari, ricollegandomi ad altri racconti e con un pizzico d’intuito, arrivavo alle bugie che mi aveva detto. Le avrei voluto gridare che sapevo, e invece facevo finta di niente sperando di riaprire l’argomento per scoprire la verità. In realtà Anna e io intendevamo il rapporto tra uomo e donna in maniera opposta. Sentire raccontare senza pudori le emozioni, i pensieri, le paure vissute dalla persona amata era per me più di un rapporto sessuale. Non si può paragonare la conoscenza del corpo alla conoscenza di ciò che lo anima. E non erano tanto importanti le storie narrate quanto la narrazione stessa, l’abbandono, l’intimità, la complicità, l’intesa.

Al contrario, Anna credeva nel mistero. Il corpo era, secondo lei, il dono d’iniziazione alle possibili scoperte del suo contenuto; avere dei segreti per lei era vitale, perché vitale era sorprendere e sorprendersi a lungo. Per quanto amore provasse si rifiutava di concedersi, di superare un pudore che non voleva superare. Qualche volta capitava che per motivi imperscrutabili, Anna cedesse di schianto alle mie insistenze e si raccontasse con crudezza, senza ritegno.

Quelli erano momenti in cui una passione prepotente mi brillava dentro, accendeva in me il desiderio di possedere il suo corpo per una completezza inebriante. Nell’abbandono, nel darsi e nel prendermi, c’era pure in lei un’energia diversa. Sentiva insieme a me che l’unione dei corpi era in quell’attimo la conclusione di un’intesa più grande.

In ogni atto d’amore avrei voluto quell’energia, quel disperato aggrapparsi della carne alla carne. Anna concedeva di rado la consultazione delle sue pagine intonse e spesso dopo averlo fatto si scagliava contro di me come se quelle “letture” le fossero state carpite. Il mio entrare nel suo intimo lo considerava curiosità morbosa, una devianza. La sua diffidenza ebbe uno sviluppo direttamente proporzionale alla mia curiosità. I suoi silenzi si prolungarono. Cercare di convincerla di quanto amore ci fosse nelle mie domande, quanto conoscerla completamente fosse l’esigenza e la prova di questo amore divenne sempre più penoso.

Contrapposi i miei silenzi ai suoi.

Eppure eravamo convinti di amarci.

Chi ha amato, chi ha creduto di amare, sa come si possa continuare a vivere con la persona che si è amata, che si è creduto di amare, anche dopo la caduta delle certezze, dei dubbi e delle illusioni. La lacerazione non è visibile, non lo sarà finché uno dei due non la mostrerà all’altro. Noi la celavamo con cura. I nostri sguardi non si incontravano. Nessuno di noi due evitava quello dell’altro eppure non s’incontravano. Guardavamo futuri diversi. Rivedevamo passati in cui non c’eravamo.

Mi accorsi di avere nuovamente tempo per i miei libri. Comprarli mi serviva a colmare un vuoto dell’anima. Libri. Compravo libri ad ogni inizio d’abbattimento, per ogni nostalgia. Intanto i giorni cadevano pesanti e freddi come pioggia invernale e noi aspettavamo l’uno un gesto dell’altro per poterci mettere al riparo.

A seno nudo con la nuca appoggiata alla parete mi guardava negli occhi aspettando un cenno. La luce dell’abat-jour le illuminava una metà del viso lasciandole l’altra metà in penombra. Stavamo facendo l’amore dopo settimane di malavoglia e nel momento decisivo ci eravamo fermati.

– Averti senza averti è umiliante. Detesto le storie che si trascinano. Quando mi chiedo perché mi sono innamorata di te trovo un sacco di risposte: la tua disponibilità, l’allegria, il comune amore per la lettura, il tuo sguardo, le tue mani… persino le tue ossessioni, forse soprattutto le tue ossessioni. Qualche volta penso di essere come quelle donne che sebbene picchiate dal marito dicono di non poter fare a meno di lui. Forse ho in comune con loro qualche valore antico ma non sono una di queste donne. Tu non mi ami e io non posso sopportarlo.

Sapevo che con tutto l’affetto possibile ormai Anna, resistendo alla mia curiosità, non sarebbe potuta essere una parte vitale della mia esistenza. Eppure cercavo di convincermi dell’impossibilità di continuare a vivere senza di lei. Mentivo e lo sapevo. Troppo forte era la sensazione di perdere una parte di me. Una parte trascurabile ma mia. Mia.

Nudo, disteso di fronte, la guardai vedendola finalmente: un occhio colpito dalla luce le brillava di un dolce e luminoso azzurro la cui linea d’orizzonte era l’inizio di una terra promessa, un mondo nuovo da scoprire; l’altro, in penombra, era di un azzurro cupo con un orizzonte netto, quasi nero, un baratro, uno spettrale muro prima del nulla.

Allungai il piede e le sfiorai un capezzolo. I suoi seni erano piccoli e solidi. Resisteva implicita nella loro solidità una acerba tenerezza.

– Potrei usare le tue stesse parole, dire le stesse cose. Anch’io amo persino le tue ossessioni.

Il bisogno di difendermi dominò la voglia di capire e di spiegare. Il bisogno di non cedere nulla spinse avanti un’infantile ipocrisia.

– Ma se queste innalzano un muro tra di noi allora con tutto l’amore possibile non posso accettarle. Voglio sapere cosa pensi, cosa vuoi. Da settimane non parliamo. Non mi dici di te.

– Ma sai tutto di me – disse con stizza.

– Non come vorrei. Ad ogni mia domanda ti metti sulla difensiva come se io volessi estorcerti delle informazioni per accusarti di qualche crimine. Voglio solo conoscerti, amarti per come sei.

La mia voce, nella risposta iniziò con un tono brusco e finì comprensiva e suadente. L’effetto fu immediato, lei lo prese a modello.

– Avresti lo stesso risultato se aspettassi. Se io avessi il tempo di desiderare di farlo, se la scoperta reciproca avesse una sua naturalezza.

Addio tono conciliante! Per quanti sforzi facessi mi irritava quello che diceva.

– Dove sta la naturalezza nel nascondermi da un anno il titolo del tuo libro? Anche se l’avessi messo tra gli altri non avrei potuto riconoscerlo, ma tu hai fatto di più: incartandolo e mettendolo in bella vista ne hai fatto una specie di totem contro di me. Mi hai messo alla prova? Volevi sapere se avrei tentato di prenderlo per scartarlo di nascosto?

Adesso non sembrava più tanto sicura di sé. Continuava a toccarsi i capelli con scatti nervosi. Strofinava una ciocca tra il pollice e l’indice come se avesse voluto scolorirne il nero profondo.

– Ogni volta, nel bel mezzo di una discussione salta fuori quel maledetto libro. Probabilmente ho esagerato, mi dispiace. All’inizio era un gioco, forse una resistenza istintiva. Mi sono soltanto difesa. Tu non hai idea di quanta violenza può esserci nel volere qualcosa a tutti i costi. Se veramente mi ami devi rispettare le mie scelte. Non puoi solo pretendere senza dare.

– Pretendere. Neanche se volessi potrei pretendere. Voglio poterti amare. L’amore regola esigenze e desideri.

– Il mio desiderio è di stare con un uomo che mi ami.

Lo disse in maniera ferma ma conciliante, come allungando una mano per stringere un armistizio. Accettai.

– Il mio desiderio è di stare con una donna che mi ami.

Negare, commuoversi, dire di volersi. Non cedendo. Non sapendo nemmeno se si sta mentendo e a chi. Ritrovarsi l’uno accanto all’altra credendo solo per questo d’essere vicini. Convincersi che le parole

abbiano detto ciò che volevi sentire, per ricominciare. Le parole sono frecce scagliate verso un bersaglio cosciente che può decidere dove, come e se farsi colpire; lei offriva il cuore ma verso cosa stesse scagliando le sue frecce non le era dato di sapere.

Nell’abbraccio conciliatore volevo offrirle qualcos’altro. L’istinto da predatore mi rendeva generoso, sentivo di essere ad un passo, avrebbe ceduto, e allora avrei saputo il titolo di quel libro.

– Passiamo il fine settimana insieme. Conoscerò tuo padre.

Lo dissi senza sapere di dirlo. Ci sono anime in noi che prendono il sopravvento persino sulle nostre debolezze.

– Sì, non voglio separarmi da te.

La carne tentò di aggrapparsi alla carne. Eravamo sospesi nel vuoto. Io tenevo lei. Lei teneva me. La paura di essere lasciati cadere faceva sì che dimostrassimo il massimo impegno a sostenere l’altro.

Dal finestrino del treno le immagini scorrevano rapide, ripetitive; con la testa appoggiata al vetro Anna era perduta in chissà quale casolare laggiù nella campagna. Per un attimo mi apparve anonima. Pensai non ci fosse niente che ancora potessi prendere o lasciare. In un angolo della mia mente, rividi quel libro aperto sulle sue ginocchia il giorno in cui la conobbi. Quel libro giorno dopo giorno si era nutrito delle nostre baruffe, crescendo dentro di me come un cancro. Sentivo di essere vicino alla soluzione, ne avrei presto saputo il titolo. Poi, cosa sarebbe successo?

La stazione era ai piedi di una collina aguzza. In cima c’era la casa. Le stradine di porfido rosso erano un’unica salita. L’affrontammo allegramente sostenuti da un entusiasmo estemporaneo.

Anna non suonò. Aprì. Si fermò in una stanzetta quadrata completamente spoglia, da un lato una ripida scala di cemento e dall’altro una porta bianca.

– Mio padre dovrebbe essere fuori per la passeggiata quotidiana, vado a vedere. Tu entra e aspettami. Gli farà piacere incontrarti nello studio per la prima volta. E’ la sua stanza preferita.

Ero sorpreso dalla tensione che traspariva dai gesti di Anna, sapevo che era molto legata al padre ormai anziano ma non credevo tenesse tanto a quell’incontro. Non aveva mai particolarmente insistito affinché avvenisse.

Abbassai la maniglia distrattamente. Prima che potessi aprire la porta Anna mi si buttò al collo e mi baciò con violenza. Il tempo di rendermene conto e stava già correndo verso le scale. Come se stesse scappando. Entrai.

L’odore che m’investì non era solo conosciuto, era amato, eppure mi sorprese come solo l’ignoto può. Gli occhi, non credendo a se stessi, rifiutavano la visione rendendola torbida, irreale. Infine si arresero. Con le spalle contro la porta guardavo la grande stanza che mi si apriva davanti e puntavo gli occhi sui pochi arredi cercando di concentrare lo sguardo su un pezzo per volta in modo da evitare di allargare il campo visivo. In fondo, un piccolo scrittoio era coperto di fogli, in un angolo un leggìo; sul lato destro vi era un caminetto ed una piccola catasta di legna, su di esso un portaritratti da cui una giovane donna con gli occhi di Anna sorrideva ironica; in mezzo alla cenere un pezzo di legno non completamente bruciato mostrava la sua anima nera; davanti al camino una poltrona di pelle aveva ceduto al quotidiano modellandosi su di esso.

Presi fiato e coraggio come se fossi stato sul punto di tuffarmi nell’acqua gelida e alzai finalmente lo sguardo per abbracciare tutta la stanza. Mi mancò il respiro. Le pareti… Tutte le pareti… Erano ricoperte di libri. Di libri!

Mi spostai al centro della stanza. Qui girai su me stesso facendo una vertiginosa panoramica. Se un uomo salisse in cima alla montagna più alta del mondo per ammirare il cielo in una notte stellata, avrebbe le stesse sensazioni di grandezza e miseria. La grandezza di chi sa di poter vincere qualsiasi miseria. La miseria di chi sa di poter annullare qualsiasi grandezza.

Dalle pareti sporgevano sei pilastri. Da un pilastro all’altro correvano lunghe mensole di legno scuro, massicce. Respiravo a fatica. La visione di tutti quei libri si scagliava contro di me mostrandomeli uno per volta. Come se quell’uno fosse la sintesi di tutti. Ebbi anche la folle idea di contarli. Proprio per avere un dato globale. Un segno della totalità. Non riuscivo ad andare oltre l’uno. Per ogni libro sentivo un sussurro perfido rimbombarmi in testa: “Anna avrà tanti libri. Questi libri saranno di Anna.”

Le deformità della poltrona mal si adattavano al mio corpo. Avevo bisogno di fermarmi un momento. Si aprì la porta. Il sorriso di Anna si affacciò nella stanza dandomi chissà perché un nuovo respiro. Si avvicinò. Appoggiando le mani sulle mie ginocchia piazzò davanti a me gli orizzonti dei suoi occhi, lontani e luminosi. Doveva essere buffo il mio viso, indeciso sull’espressione da prendere. Disarmato. Lei tentava di godersi gli spazi lasciati dalle mie smorfie, di vedere finalmente al di là.

– Perché non me l’avevi detto? – Avevo la voce di un pugile suonato.

– Volevo farti una sorpresa.

– Per tutto questo tempo non hai detto niente.

– Volevo farti provare il piacere della sorpresa. Ci sono riuscita se hai capito che ad ogni piacere si contrappone un piacere contrario. Volevo fosse un momento speciale. E potrebbe non essere l’ultimo.

I pugili in difficoltà abbracciano gli avversari per evitare d’essere ancora colpiti. La abbracciai. Sentivo la sua guancia sulla mia. Le sue dita tra i miei capelli. Furtivamente diedi un’occhiata ai libri. Fu un’occhiata fugace eppure mi sembrò di averli guardati uno per uno.

In quel preciso istante la mia voce risuonò nella stanza, sommessa ma chiara.

– Mi vuoi sposare?

Le braccia di Anna divennero una morsa. Adesso era lei a nascondersi nell’abbraccio. Rispose dopo un tempo interminabile.

– Perché me lo chiedi adesso?

Prima di risponderle le baciai la fronte con tenerezza.

– Non riuscirò a trovare un momento e un luogo più adatti.

Era sconcertata. Lasciò la presa e si allontanò di qualche passo.

– Tu credi nelle coincidenze? Nelle felici coincidenze? Forse no. Aspetta un attimo.

Mi ero goduto la confusione in cui l’avevo messa, adesso vedendola uscire mi rendevo conto di ciò che le avevo appena detto. Alzandomi guardai e riguardai tutti quei libri. Cercavo di concentrarmi per pensare. Avrei voluto qualche attimo per riflettere, per rendermi conto di cosa stavo facendo. Lei tornò subito. In mano aveva un pacchetto rosso. Una macchia di sangue che non riuscivo a levarmi dalla mente.

– Questa dovrebbe essere la seconda sorpresa di oggi: darti la possibilità di scartare il libro a cui tieni tanto. So che può sembrare infantile eppure mi ero preparata come se io avessi dovuto chiederti di sposarmi.

Lo sapevo! Lo sapevo! Era solo colpa mia se Anna aveva innalzato quel libro a simbolo di libertà. Libertà di mostrarmi o non mostrarmi le pagine del suo essere. Aveva avuto il desiderio, il bisogno, la volontà di mostrarmele. Era stata la mia avidità, la mia arida smania a inibirla. Avrebbe voluto un lettore attento, interessato ad entrare nella narrazione e non un grossolano collezionista di “fogli”.

L’abbracciai commosso, veramente commosso. Il libro stava tra di noi, all’altezza del petto.

– Posso scartarlo e vedere finalmente questo benedetto titolo?

Continuando a tenerlo stretto al petto si allontanò. Si appoggiò al caminetto e parlò con voce tremula.

– Pensavo che volessi sentire prima la mia risposta. Non ti ho ancora detto sì. E non ho detto che ti avrei dato il libro. Ho detto che ti avrei dato la possibilità di averlo.

Rimasi controllato. Impaziente ma controllato. La parte romantica di Anna era tenera e arrendevole, ma la sua parte razionale, la moderna guerriera, era devastante. Esasperante. Continuò:

– Voglio stare con te. Su questo non ho dubbi. Però c’è sempre stata tra noi una membrana d’incomprensione. Ora questo libro ne è l’incarnazione. Portandolo qui avevo pensato di risolvere una volta per tutte la questione. In maniera melodrammatica certo, in fondo io sono una romantica. Avresti dovuto scegliere: o me o il libro.

Restava appoggiata al camino e parlava apparentemente calma. Pienamente in possesso della situazione e delle parole. Ormai la conoscevo abbastanza per immaginare quale magma di sensazioni fluisse dentro di lei. Mostrarsi calma denotava la decisione di essere determinata a qualunque prezzo.

Mise quel simbolo rosso nel camino.

– Adesso sono certa che lo brucerai senza neanche pensarci…

Le sue parole mi giunsero lente ed ebbi tutto il tempo di assorbirle. Stentai a capire. Non poteva aver detto seriamente quello che io avevo sentito.

– E’ uno scherzo?

– No, non lo è – disse sforzandosi di sorridere.

Da dietro la catasta di legna prese una scatola di fiammiferi e una bottiglia di liquido infiammabile e me li porse.

– Si può sapere cosa vuoi che faccia? – Non riuscivo a crederci.

– Voglio che bruci questo libro.

Ridacchiai con l’incoscienza degli idioti. Ridacchiai per nascondere disagio e paura.

– E’ una cosa stupida – dissi indignato.

– Non lo è.

– Sì invece, è stupida! – Non volevo alzare la voce, ma forse lo feci.

– Puoi fare una cosa stupida per me? Se non lo bruci è tuo. Lo prendi e quella è la porta.

Il libro, tra la cenere, gridava con la forza di tutti i libri di quella stanza. La voglia di sapere, la forza della curiosità, la morbosità della conoscenza, davano a quel libro il vigore necessario per fronteggiarli tutti. Dovevo bruciarlo? Dovevo rendere impossibile ad un’ombra il ritrovamento del proprio corpo? Dovevo rendere irraggiungibile una terra inesplorata?

Gocciolavano i secondi. Gocciolavano sul volto di Anna tingendolo di bianca incontrollata ansia. Le si poteva leggere negli occhi che non aveva previsto quest’attesa.

Dalle pareti i libri sembravano stringersi verso di me. Chiusi gli occhi per non guardare Anna. Per fare un semplice e logico ragionamento: avrei mai avuto l’opportunità di possedere tutti quei libri? Quanto ci sarebbe voluto? Un solo libro non poteva avere la forza di centinaia, di migliaia di libri. Non ero soltanto cinico. In fondo amavo Anna e di lei amavo tutto, pregi e difetti. Come per ogni innamorato, c’erano momenti in cui amavo più gli uni e momenti in cui amavo più gli altri. In quel momento amavo soprattutto i suoi pregi e tutti quei libri erano un grande, grandissimo pregio.

Malgrado ciò, versando il liquido, non avevo ancora deciso. Poi visualizzai con chiarezza il libro impresso nella mente di Anna e mi convinsi. Non lo avrei distrutto per sempre.

Alla prima fiammata Anna si lanciò verso di me. Risposi all’abbraccio quasi con uguale calore, mentre provavo a sbirciare tra le fiamme per vedere se il fuoco arricciandone le pagine avrebbe potuto mostrarmi almeno una parola del titolo… anche soltanto il nome della casa editrice.

Questo racconto ha vinto il Premio Teramo 2005

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